Con l’inizio dell’anno accademico, in Italia torna il decennale dibattito tra i favorevoli e contrari ai test d’ingresso, ma ci sono dei quiz che nel belpaese (e in Europa) non troviamo sui banchi delle università e che, forse, dovremmo invidiare al sistema anglosassone: si tratta di test a risposta multipla sul tipo di condotta da attuare in materie, che variano, come il rapporto con l’alcol, con le droghe, con i minori e sui protocolli di sicurezza in caso di emergenza.
I test arrivano a conclusione di brevi corsi, spesso online, che non occupano più di due ore ognuno e che si svolgono durante l’estate, fuori dal periodo ordinario delle lezioni.
I risultati? Variano dal sapere che numero di telefono chiamare nel caso si veda uno sconosciuto armato o su cosa fare nel caso un collegemate sia alle prese con una sbornia senza far intervenire ambulanze o emergency rooms.
Una sorta di militare accelerato, prima di entrare in comunità come quella dei college dove non si può far più affidamento sui genitori.
Alcuni istituti, come l’University of Idaho, rendono obbligatori questi test anche per il personale impiegato nell’ateneo, mentre ci sono blasonate scuole private, come la cattolica Saint Viator High School di Chicago, che oltre a prevedere i test obbligano addirittura i propri studenti ad impegnarsi in 25 ore di servizio alla comunità.
Un approccio più pratico a quella educazione civica presente nei programmi ministeriali, ma spesso vissuta come una sorta di intrusione nelle materie ordinarie e non aggiornata ai pericoli del terzo millennio.
Quanto poco costerebbe, anche al nostro sistema accademico, sdoganare test del genere e quali alti benefici ne otterremmo, specie quando fenomeni come il terrorismo o il come comportarsi in caso di calamità naturale sono così attuali?
Di Virgilio Falco, tratto da Formiche.net